Danny Way: un esempio di perseveranza e coraggio



Oggi va tanto di moda la parola "resilienza", questo sostantivo indica la capacità di un individuo di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza perdere la propria identità.
Personalmente non amo queste mode, quando un concetto inizia a diventare popolare tanto da diventare una didascalia da mettere sotto le proprie foto sui social o peggio ancora una parola da tatuarsi nasce in me una sensazione di profondo fastidio.
Non so cosa pensi Danny Way di questa mia disquisizione, non so se conosce questa parola relativamente nuova e tanto tristemente abusata..
Di sicuro Danny Way è un esempio di resilienza o detto in altri termini e senza seguire questi discutibili trend pseudo-intellettualoidi è un esempio di perseveranza, combattività, speranza, forza d'animo e coraggio!
A neanche un anno di età suo padre si impicca nella cella del carcere dove si trovava mentre la madre inizia ad abusare di stupefacenti e psicofarmaci.
Danny cresce in un clima familiare instabile, la madre cambia spesso partner e spesso gli uomini che sceglie sono violenti ed abusanti, fino al matrimonio con il noto surfista Tim O'Dea. Tim è una figura adulta positiva per Danny, non solo a livello affettivo ma anche perchè gli fa scoprire l'amore per il surf e soprattutto per lo skateboarding. Danny è molto bravo a skeitare e nel giro di qualche anno diventa un professionista sponsorizzato dalle maggiori company statunitensi come la Powell Peralta e la H-Street. 
Tim però si allontana dalla sua vita, prima con il divorzio dalla madre e poi con la sua morte durante una sessione di surf.
Danny non si arrende e continua a skeitare e a migliorare, è ormai uno dei pro-skater più forti nel vert (da vert skating, disciplina dello skateboarding in cui si skeitano rampe di minimo 3 metri di altezza detti half-pipe) a livello mondiale. Nel 1994 si rompe il collo ma fortunatamente riesce a riprendersi e dopo la riabilitazione combatte le sue paure e continua ad allenarsi e a restare uno dei più forti del pianeta.
Intanto diventa anche un imprenditore e fonda insieme al suo mentore Mike Ternansky (un'altra figura di riferimento nel deserto affettivo di Danny) ed al suo amico Colin McKay (un altro fortissimo vert skater) la rivoluzionaria company Plan B.
Non sono anni facili per lo skateboarding gli anni 90, sono anni difficoltosi e bui dove questo sport perde popolarità ma Danny continua a skeitare ed insiste nel suo progetto imprenditoriale.
Nel 1997 Mike Ternansky muore in un incidente stradale, Danny rivive ciò che è successo con il suo patrigno Tim O'Dea.
Gli anni 2000 segnano la rinascita dello skateboarding ma Danny non si è mai fermato, è ormai un imprenditore di successo e nonostante l'età e tredici operazioni affrontate è ancora fortissimo come vert skater.
Nel 2005 salta da una gigantesca rampa all'altra la grande muraglia cinese!
Siamo nel 2017 e Danny è ormai una leggenda vivente dello skateboarding mondiale, egli ha incarnato in pieno lo spirito dello skateboarding (che non è solo uno sport ma qualcosa di più profondo..): osare, cadere e farsi male ma rialzarsi sempre.


Credits: https://www.youtube.com/watch?v=1mQbD8xzNdY






Il culto del disagio



"Esiste una sconfitta pari al venire corroso che non ho scelto io ma dell'epoca in cui vivo.."  cantavano i CCCP (storico gruppo punk emiliano degli anni 80). Questa frase mi ha sempre colpito e fatto pensare. Esprimeva quello che sin da ragazzo pensavo, esprimeva la noia esistenziale che iniziava a diffondersi negli anni 80 e che si era ormai sedimentata negli anni 90 e che è stata descritta perfettamente da quel colpo di fucile che Kurt Cobain si è sparato. Prima dei Nirvana ed anche dei CCCP ci sono stati altri gruppi che hanno descritto attraverso la musica le angosce dell'uomo contemporaneo, pensiamo alla Dark Wave britannica, ai The Cure ed ai Joy Division con il loro triste epilogo per esempio. La musica contemporanea non può non descrivere il malessere esistenziale della società occidentale, è inevitabile ed anche ovvio. Quello che non è ovvio è che ormai, canzoni d'amore a parte, tutta la musica mainstream affronta temi intimistici legati ad una dimensione di malessere esistenziale e psicologico in cui si descrive un individuo ripiegato su se stesso ed intento sulle proprie ferite. Non c'è altro, non c'è alcuna dialettica tra disagio e risoluzione di esso. Il malessere è assolutizzato, decontestualizzato, non stiamo male perchè vi sono determinate cause socio-economiche e culturali, stiamo male perchè è la vita che fa schifo. Con questo non intendo che sarebbe auspicabile celebrare la vita in maniera scontata e dozzinale come fa Jovanotti nei suoi stucchevoli testi, tra l'altro ogni volta che ho la disgrazia di ascoltare una sua canzone mi viene da imitare il sopracitato Kurt Cobain.. Non auspico neanche un ritorno alla musica come strumento di denuncia sociale, si vuole solo evidenziare in questa sede l'assolutizzazione della sofferenza esistenziale nella cultura musicale contemporanea, di altro non si parla o quantomeno non vi sono risposte, non si cercano soluzioni, ci si limita a piangerci addosso. Il disagio è avulso da qualsiasi causa economica, sociale, politica, c'è perchè è l'esistenza che è uno schifo e quindi non lo si può combattere, non ci sono soluzioni, al massimo dei rimedi di tipo farmacologico (legale o meno..).
Come già ho espresso nel post su Gomorra i mass media non solo descrivono la realtà ma nel descriverla la creano. Questo sta succedendo anche con la musica maistream ed il suo pubblico.
In un contesto sociale e culturale dove qualsiasi identità è resa fragile e precaria  e quando nonostante tutto sussiste è malvista in quanto tale, i giovani ricercano la propria anche nella musica e la risposta che ottengono è: "io sono perchè soffro".
Si sta creando un vero culto del disagio, esso è un brand da indossare, un vero e proprio stile di vita nel quale si è quasi fieri delle proprie problematiche psicologiche ed esistenziali così come si è fieri dei farmaci che si assumono per (non) affrontarle.
Avere l'ansia, tagliarsi, "stare sempre fatti", "fumare i casini" e "bere i problemi", come dice il trapper Ghali, sembra sia diventato uno status symbol. Prima chi assumeva psicofarmaci lo faceva di nascosto e se ne vergognava, cosa anch'essa non giusta, adesso è un motivo di vanto e di prestigio.
A livello pedagogico è auspicabile intervinire su tre punti fondamentali così da proporre una disamina della questione a partire dal piano spirituale (ebbene si! Non è una bestemmia..), filosofico, politico e socio-economico:

  1. Stimolare una riflessione profonda sulle cause della sofferenza umana: essa fa certamente parte dell'esistenza ma non va subita, nello stesso tempo essa è determinata, di volta in volta da precisi fattori socio-economici, politici e culturali rispetto ai quali bisogna prendere coscienza ed assumere un atteggiamento attivo sia a livello individuale che collettivo.
  2. Ricercare ed aiutare l'adolescente a risvegliare quelle energie vitali che possano aiutarlo ad affrontare la vita in maniera combattiva e costruttiva piuttosto che autodistruttiva e vittimistica.
  3. Favorire la costruzione di un'identità non basata sulle tendenze culturali del momento e sui dettami del mercato, bensì proporre la conoscenza di se stessi, delle proprie attitudini, delle proprie energie ma anche dei propri limiti al fine di una vera realizzazione individuale.

Infine bisogna far capire al soggetto, laddove vi siano problematiche psicologiche e/o psichiatriche importanti, che l'auto-cura non è una soluzione ma al contrario un ulteriore problema mentre sarebbe necessario rivolgersi ad uno specialista che possa realmente aiutarlo a guarire le proprie ferite. Ma di questo ne parlerò più specificatamente nei prossimi post.

Tim Raue: alchimia del dolore e della violenza





Lo chef stellato Tim Raue è nato nel 1974 a Berlino ed è vissuto nel quartiere di Kreuzberg, il più malfamato di quella che allora era Berlino Ovest. Figlio di genitori divorziati verso i nove anni fu costretto a trasferisi dal padre a causa delle evidenti difficoltà economiche ed esistenziali della madre, inizia purtroppo per il piccolo Tim un inferno fatto di violenza domestica.
Per anni Tim subirà tutta la vigliaccheria e la frustrazione della figura paterna. Dolore fisico, paura, ospedali e l’enorme tristezza per essere stato abbandonato dalla madre e tradito dal padre. Tim cresce, l’innocenza rubata e negatagli si trasforma in una bomba di odio pronta ad esplodere; violenza e sopraffazione sono le uniche leggi che conosce e la dura realtà di Kreuzberg non fa che confermare gli insegnamenti appresi in casa.
La bomba di odio espolde, Tim diventa un ragazzo di strada, un membro di una gang e da vittima diventa carnefice. Adesso non è più lui a subire, ha imparato a sopravvivere e per sopravvivere in strada devi giocare sporco. Furti e rapine ma anche risse e pestaggi per primeggiare con le altre gang in un campionato senza regole in cui coltelli, mazze da baseball e bottiglie rotte lasciano poco spazio al fair play. 
Violenza, rabbia, e autodistruttività, l’epilogo di questa storia sembra scontato: Tim finirà seppellito in carcere, morto ammazzato o peggio ancora tossicodipendente a vita.
Invece il futuro Chef si rende conto che così non può continuare e che quel tipo di vita non gli darà nessun futuro, solo altra sofferenza. Cerca lavoro e in un centro per l’avviamento al lavoro gli vengono proposte tre alternative: frequentare una scuola per diventare o imbianchino o gardiniere o cuoco. Sceglie quest’ultima, in fondo mangiare è bello e l’assaporare le fragranze e sentire gli odori di quelle merendine che si comprava al supermercato con la paghetta costituiva un momento di pace nel suo inferno minorile.
Tim non solo non vuole finire male ma vuole emergere, vuole diventare famoso e fare la differenza. Adesso ha una passione, si rende conto di avere talento, quella rabbia e quella violenza adesso si sono trasformati in combattività e lo aiutano ad affermarsi in un ambiente dove ci vuole personalità, ambizione, serietà, forza di volontà e resistenza fisica. In più se  provieni da Kreuzberg la determinazione deve essere doppia rispetto a quella dei tuoi colleghi perché nessuno ti regalerà la sua fiducia.
A neanche 25 anni è già Chef e il resto è storia.
Adesso Tim Raue gestisce ed è lo Chef del Tim Raue Restaurant, un ristorante stellato tra i più famosi di Berlino, della Germania e incluso tra i “The world’s 50 best restaurants”. La sua idea di ristorazione rispecchia la personalità di un ex ragazzo di strada egocentrico, trasgressivo ed aggressivo: camerieri in t-shirt e blue jeans, sapori forti, note acide e piccanti sopra le righe per le concezioni classiche di cucina...  ma questo non è un blog di cucina gourmet e poco ci deve importare del menu del nostro Tim, quello che invece deve risaltare è l’incredibile percorso di vita di un uomo che, riportando le sue parole, è stato capace di controllare le sue energie negative per trasformarle in qualcosa di meraviglioso.

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Stigmatizzazione dell'aggressività: un errore pedagogico


Nel post precedente si parlava di Gomorra e di tutti quei film o serie tv inerenti la criminalità ormai sempre più di successo. Uno dei motivi di tale successo è che i protagonisti dei vari Gomorra, Suburra, Romanzo Criminale sono altamente aggressivi.
Al di là di un giudizio di valore sugli squallidi motivi per cui esprimono la propria aggressività, essi sono in questo profondamente umani e questa autenticità affascina.
Affascina perché al contrario di ciò che accade nella vita di tutti i giorni questi personaggi sono quasi totalmente liberi nell’agire la propria aggressività, i propri istinti violenti ed il loro thanatos. Da qui catarsi e fascinazione appunto.
Al contrario nella realtà ognuno di noi subisce sin dall’infanzia un condizionamento sociale pesantissimo volto a reprimere qualsiasi pulsione di questo tipo, con la complicità di distorte strutture morali pensiero.
La cultura dominante da immediatamente un’accezione negativa al termine aggressività, vorrebbe un’umanità priva di questa dimensione, castrata di quello che invece è soltanto un impulso vitale ed in quanto tale necessario.
In primis è necessario perché la società contemporanea è purtroppo una società altamente conflittuale, essa reca in se il germe della sopraffazione dell’altro; dove l’altro è inteso come singolo, come classe economica, come popolo, come soggetto culturale e nei confronti della quale sarebbe auspicabile una lotta per riaffermare la propria esistenza.
Ma l’aggressività è necessaria perché questa è un’energia, una sorta di carburante che abbiamo a disposizione e che a volte è necessario usare e bisogna saper usare.
E’ necessario svincolare l’aggressività dall’accezione negativa che ormai l’accompagna per cui esprimerla è di per se sbagliato se non addirittura immorale, essa non significa per forza violenza fisica e prevaricazione dell’altro.
L’aggressività ad esempio può trasformarsi in grinta e la grinta è spesso indispensabile di fronte ad eventi o situazioni problematiche.
Aggressività e rabbia, un istinto la prima e un sentimento la seconda che in quanto tali non vanno né repressi né assecondati irrazionalmente: esse vanno canalizzate e utilizzate in maniera proficua ai fini della progettualità esistenziale della persona.
Negare l’aggressività, non riconoscerla, non fare esperire adeguatamente i propri sentimenti di rabbia, non educare alla gestione di queste due dimensioni profondamente connesse tra loro sarebbe un grave errore da parte di chi lavora in qualsiasi ambito dell’educazione, l’ennesimo tentativo di repressione delle energie vitali derivante da una visione ancora una volta distorta e parziale dell’essere umano.